Tanta buona musica, i dati in tempo reale della stazione meteo di Montese, le immagini delle webcam della zona e qualche buon consiglio!

Ricordi d’infanzia

Mia madre sta seguendo con grande interesse un corso organizzato dell’associazione culturale Primo Levi dal titolo “IL SENSO E IL VALORE DELLE RADICI: LABORATORIO DI SCRITTURA COLLETTIVA”. Il docente, tal Gabriele Cremonini, scrittore bolognese del bel libro “Sputasangue” pubblicato da Pendragon, ha chiesto ai partecipanti di cimentarsi in un esercizio di scrittura che facesse emergere i loro ricordi d’infanzia. Il corso proposto si pone infatti come laboratorio della memoria per giungere, attraverso i racconti individuali e numerosi altri apporti (documenti, foto, ecc.) alla realizzazione di un libro capace di non disperdere quell’immenso patrimonio che è la memoria collettiva di una comunità, che rischia di essere dimenticata ma che invece segna il trapasso da una società rurale ed artigiana ad un contesto di urbanizzazione, con la conseguente perdita di saperi preziosi.

Questo è il racconto che ha scritto lei e che mi ha inviato per mail. A me è piaciuto, forse è vero che risente un po’ dell’impostazione didattica di chi ha insegnato ai bambini della scuola elementare per molti anni, ma tralasciando lo stile è comunque una bel ricordo di una persona che allora era solo una bambina di 10 anni che ben presto ha lasciato quel luogo incantato, quei sapori, quei colori, quella grande famiglia che da allora non sono mai più stati gli stessi. Mickey!

I miei ricordi sono legati alla mia felice infanzia vissuta alle Coveraie in una famiglia “allargata” composta da genitori, nonni, zii e cugine, il cui capo tribù era nonno Ugo. Uomo austero di bell’aspetto, robusto di corporatura, portava sempre un panciotto da cui pendeva una catena d’argento che reggeva il suo inseparabile orologio da tasca. Il nonno incuteva un misto fra rispetto e soggezione non solo ai figli e alle nuore che si rivolgevano a lui dandogli del voi, ma anche a noi bambine che non osavamo certo disubbidirgli.
Il mulino ad acqua era il centro della vita commerciale ed il traffico quotidiano dei “birocci” era notevole. Si accedeva al mulino da un ampio porticato delimitato da due arcate di pietra arenaria. Sotto il portico regnava una gran confusione: sacchi ammassati, carrioli, galline che becchettavano chicchi di grano, gatti che sonnecchiavano sui sacchi. Full ,il nostro cane lupo,teneva tutto sotto controllo e,quando il postino si fermava all’inizio della discesa delle Coveraie, partiva a razzo per portare la posta a nonno Ugo tenendola stretta fra i denti. Sotto il portico regnava una gran confusione: sacchi ammassati, carrioli, galline che beccavano chicchi di grano, gatti che sonnecchiavano sui sacchi. Si entrava nel mulino da una prima stanza dove, sulla destra, vi erano due belle macine in sasso sormontate dalle tramogge in legno, un campanello avvisava quando la tramoggia era vuota. Mi ricordo di averlo sentito suonare spesso di notte, nel periodo della grande “masneda” delle castagne secche che avveniva giorno e notte. Per giungere al
livello delle tramogge e versarvi i cereali o le castagne, si salivano alcuni gradini in sasso, poi una ripida scaletta in legno metteva in comunicazione il mulino con l’abitazione. Si apriva infatti una botola e si sbucava nello stanzino che faceva da dispensa, così era più semplice, soprattutto di notte, salire e scendere senza uscire all’aperto. Una bascula stava al centro della prima stanza e un’immagine di Sant’Antonio abate, protettore oltre che degli animali anche dei mugnai, era appesa al muro bene in vista. Un corridoio con assi in legno metteva in comunicazione con un altro stanzone dove erano poste le altre macine. Ovunque c’era confusione, polvere, rumore; il corridoio, reso scivoloso dalla farina, era il nostro
scivolo ed i sacchi diventavano luoghi magici per giocare a rimpiattino.
Il periodo a cavallo fra l’autunno e l’inverno era comunque il tempo di più intenso lavoro, poiché oltre alle castagne avveniva la macinatura degli altri cereali: le famiglie, in previsione delle difficoltà di spostamento durante l’inverno, usavano fare buona scorta di farina prima delle grosse nevicate. La merce veniva insaccata e sui sacchi veniva scritto il nome del proprietario.
Mio zio Anselmo, bell’uomo, simpatico, amante della compagnia e delle belle donne, tornava spesso a casa spesso a notte fonda in sella alla sua mitica “vespa”; il giorno successivo perciò invece di lavorare era spesso addormentato su qualche sacco di farina, sfidando l’ira del nonno che minacciava di svegliarlo con secchiate dell’acqua fredda delle Coveraie, incitato a gran voce da noi bambini.
Essendo una famiglia molto numerosa quella di mio nonno, attorno al mulino venivano svolte altre attività: si coltivavano i campi circostanti, nella stalla vi erano le mucche, di sopra il fienile, più lontano una “porcilaia” con diversi maiali che in parte venivano macellati per la famiglia e in parte venduti.
Intorno alle Coveraie vi erano boschi e castagneti dove noi bambine passavamo gran parte del tempo ad inventarci i giochi: s’intrecciavano le foglie di castagno per fare cestini e raccogliere fragole o per costruire rudimentali bicchierini per bere l’acqua che zampillava dalla sorgente. Quando le mucche partorivano c’era attorno alla stalla un gran daffare, ma noi femmine dovevamo stare lontane perché non ci era consentito vedere come nascevano i vitellini, come del resto ci era proibito (a suon di sonore sberle sulle labbra) parlare in dialetto, ritenuto lingua rozza e volgare, negativa per la nostra educazione, purtroppo….
A novembre veniva in casa il macellaio, uomo alto, moro, rosso in viso, robusto di corporatura. La sala da pranzo diventava il laboratorio dove si “disfaceva” il maiale ricavandone prosciutti, salami, coppe, ciccioli
e salsicce che poi venivano appese al soffitto nelle stanze da letto, per farle appassire e mantenere a lungo. Mia nonna era esperta nel cucinare fegatini di maiale avvolti nella rete accompagnati dai
“melfatini” polenta dolce e tenera di castagne. Non sono mai più riuscita a ritrovare quei sapori.
Nonna Elvira è la persona che ricordo con maggior nostalgia, sempre indaffarata a governare la sua tribù composta dal marito, sette figli, nuore e nipoti. Era rispettata da tutti per la sua pazienza, dolcezza e
disponibiltà a condividere i problemi degli altri. Ricordo che, di nascosto al nonno più affarista, preparava sacchetti di farina perché donne bisognose avessero di ché nutrire i loro figli. I suoi occhi azzurri erano sempre sereni, i suoi capelli grigi erano raccolti a chignon, fermati da forcine in osso giganti: quando qualcuno bussava alla porta, il suo primo gesto era quello di riavviarsi i capelli per essere in ordine. Per sfogare qualche momento di rabbia osava esclamare “- vat fa’ foter -”
Per andare a scuola a Maserno, noi bambine dovevamo percorrere un chilometro a piedi, spesso “stiancando” la neve e ritornando a casa, nella discesa, si metteva la cartella a mo’ di slitta e ci si divertiva
un sacco. La vecchia scuola si trovava di fianco alla bella chiesa di Maserno, il mio eccezionale maestro, esperto anche in zirudelle, ne scrisse una in occasione dell’abbattimento di una quercia secolare che
stava dietro la chiesa ,sotto la quale nelle ricreazioni noi giocavamo. Questo gesto ,voluto dall’arciprete di Maserno per interessi economici, non fu certo condiviso dalla gente!

Saluto e testamento della quercia

Io ti lascio, o mio Maserno
me ne vado in pieno inverno;
vò a bruciare sull’alare
di un misero mortale,
che, solamente per dispetto,
bench’io fossi ancora forte,
ha voluto la mia morte!

O Maserno balugano,
quanto bene ti volevo
fin dal vecchio medioevo!
I tuoi bimbi a me dintorno
rallegravano il mio giorno
e sui rami quanti nidi
e d’uccelli quanti gridi!

Dopo secoli di lotta
contro i venti della Serra
risparmiata dal furore
d’una triste, lunga guerra,
son colpita a tradimento.

Ora……. dimmi sei contento?
Una cosa dir ti voglio:
perché poi m’hai abbattuta?
per colmare il portafoglio?

per ‘na cosa così gretta
era meglio una colletta!
Io lo so che non fruttavo
né più ghiande ti donavo
ma colui che m’ha piantata
poi….. la Pieve t’ha donato!

E’ or giunta la mia fine
un uom nero ha già le mine.
Io mi sento un gran tormento
voglio fare testamento.

Scriva signor notaio!
Ventotto di gennaio
Lascio la terra al sole
lascio le foglie al vento,
dov’era la mia ombra
or ci sarà frumento.

Il bel tronco secolare
a chi debbo io lasciare?
Scriva chiaro sul quaderno:
Voglio che riscaldi
la chiesa di Maserno.

Per voi tutti di Maserno
pur con me poco cortesi
ho ‘na gran consolazione:
vi lascio un bel Pretone!

firmato
La Quercia


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